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Il rapporto dialogico tra diritto canonico e common law

    

 

Il diritto canonico, nonostante sia giunto alla codificazione solo in tempi abbastanza recenti (1917), rappresenta uno dei primi esempi di sistematizzazione del diritto e grazie all'opera dei canonisti, molte parti della tradizione giuridica romanistica sono state tramandate a noi. Nondimeno, l'espansione del cattolicesimo in Europa ha fatto sì che il diritto canonico venisse per primo a contatto con forme ed istituti di common law.

In tal senso, oggi possiamo ben affermare che “la conoscenza del diritto canonico è imprescindibile in rapporto all’evoluzione storica delle istituzioni giuridiche, in quanto materia basata sull’informazione ed interpretazione di un corpus iuris[1].

Appare suggestivo individuare, partendo da una prospettiva storico-giuridica, la reciproca influenza  tra il diritto canonico e la tradizione di common law, ma prima, al fine di una migliore comprensione della portata delle interazioni occorre soffermarsi sulla specificità dei c.d. diritti religiosi ed al loro interno sulla particolarità del diritto canonico. Nei diritti religiosi, il significato proprio  del termine “diritto” è diverso rispetto a quello degli Stati , infatti per quest’ultimo vi è una netta distinzione tra religione ed etica e pertanto non possono albergare in quegli ordinamenti norme etiche, nei diritti religiosi, al contrario, il termine “diritto” comprende etica e religione (come ad esempio avviene nei paesi islamici nei quali vige la Sharia).

Nel diritto canonico, possiamo riconoscere la compresenza di  un “diritto divino” che è costituito dalle norme che Dio rivelandosi  ha comunicato agli uomini  mediante la missione nel mondo di Gesù, ciò cha creato una serie di norme vincolanti creatrici di diritti, ad esempio il primato petrino,  ed un “diritto naturale” che si deduce, invece, dalla natura mediante la ragione (ad esempio attraverso l’imperativo naturale non uccidere). Il diritto canonico è, alla luce della sua particolare conformazione, essenzialmente un diritto ascrivibile nell’ambito del diritto amministrativo in quanto organizza solo la propria struttura e non quella della società e strumentale al fine della Chiesa che è quello della salvezza dell’uomo, mentre gli altri diritti religiosi, sono diritti che possono iscriversi sia nell’alveo del diritto pubblico che in quello del diritto privato, in quanto regolano la società avendo come fine il mantenimento della comunità sacra. La particolarità del diritto canonico , non afferente all’organizzazione del rapporto tra i singoli fedeli, rispetto a tutti gli altri diritti religiosi, fa si che esso possa convivere con gli ordinamenti statuali secolari .

Storicamente, i primi esempi di “contaminazione” tra diritto canonico e common law, si possono registrare intorno al 1100 d.C., allorquando si assiste alla nascita nel Regno Unito delle Corti Speciali Ecclesiastiche, istituite da Guglielmo I per ringraziare il Papa dell’aiuto da questi fornito per la guerra di conquista sui Sassoni del 1066. Queste Corti, utilizzando il diritto canonico, esercitavano la giurisdizione esclusiva in ordine ai chierici, ai beni della Chiesa, ai reati di bestemmia ed eresia, alle questioni matrimoniali e ad alcune questioni testamentarie, tutte tematiche per le quali il diritto canonico, con il susseguirsi di decretali che di lì a breve sarebbero state organizzate in un vero e proprio sistema, il Decretum Graziani (1140), dimostrava di avere maggiore esperienza rispetto al diritto anglosassone in questi campi ancora in formazione, che pertanto ne rimaneva profondamente influenzato. Ed invero, il common law “importava” dalla Corti Speciali Ecclesiastiche la “mentalità canonistica”, intesa come mentalità attenta al “particolare”, cioè assumeva l’attenzione alle singole circostanze, la concretezza, l’elasticità e, sul piano processuale la valorizzazione del giudice quale elemento centrale dell’ordinamento. In tal senso, un esempio di “mentalità canonistica” nel common law , si può riscontrare nella c.d. “equity”  , istituto che si sviluppa a seguito della crisi delle c.d. Corti di Westmister. Infatti, i sudditi del Regno Unito, insoddisfatti dei responsi delle corti che applicavano rigidamente il common law, intorno al 1300, iniziano a rivolgersi sempre più spesso la sovrano affinché intervenisse “per soddisfare la coscienza e per opera di carità” . Si sviluppa così una giurisdizione autonoma che interviene non per violare il common law, bensì per temperare il suo rigore quando la sua applicazione costituiva “summa iniuria”. Si applica, in questo caso una modalità analoga alla c.d. “aequitas canonica”, infatti il giudice esprime il proprio giudizio secondo equità tenendo conto delle circostanze dello stato e della posizione dei singoli, discostandosi molto anche dalla concezione di equità del civil law ove questo istituto è relegato solo a casi eccezionali ristrettissimi, allorquando la rigidità e l’astrattezza della norma non possano “contenere” la fattispecie.

Ma le contaminazioni nel diritto non possono mai essere univoche, pertanto anche nel diritto canonico possiamo riscontrare degli elementi riconducibili al common law. E’ un esempio di ciò il concetto di proprietà. Negli ordinamenti di common law non troviamo una differenziazione tra proprietà e diritti reali, mentre troviamo una serie di regole che sembrano molto limitate nella loro portata e che riguardano soprattutto la tutela giuridica di varie posizioni in rapporto ai beni, perché in effetti quello che si utilizza in common law è una categoria di diritto sul bene. Questo diritto sul bene può essere ampio e quindi simile alla proprietà del civil law, oppure può essere limitato e dare luogo al diritto di trarre certe utilità dal bene: in questo caso si avranno ipotesi simili alla servitù e ad altri diritti reali di civil law. Tale concezione deriva dall’antico retaggio per cui la terra apparteneva al sovrano e chiunque poteva avanzare diritti solo su concessione del sovrano, tant’è che ancora oggi, anche sul piano strettamente semantico, si suole distinguere tra ownership (appartenenza) e property (titolo su cosa fisica), proprio ad indicare un differente grado di diritto sulla cosa. Parallelamente, nel diritto canonico, troviamo riprodotta questa differenziazione di grado tra appartenenza e proprietà che si esplica nel diritto nativo della Chiesa di acquistare, possedere ed amministrare un bene così riproducendo in capo alla Chiesa le prerogative proprie del sovrano di common law. In tal senso, il can. 1254 del Codice canonico del 1983, sulla scorta anche della precedente codificazione del 1917, sancisce che “La Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare ed alienare i beni temporali per conseguire i fini che le sono propri”; in tale accezione di proprietà riconosciamo un’impronta che più si avvicina alla concezione anglosassone che non a quella di civil law di diritto assoluto sul bene limitato solo dall’interesse pubblico e dagli obblighi stabiliti dall’ordinamento.

Proprio quest’ultimo esempio ci conduce alla naturale conclusione che il dialogo tra diritto canonico e common law non si è mai interrotto ed anzi trova sempre nuova linfa nella rifiuto netto del formalismo, che è poi la stessa cifra che permette al diritto canonico odierno di poter convivere sia con i sistemi di civil law che con quelli di common law, in una continua dialettica tra assorbimento delle regole e distanza che contribuisce ad arricchirlo ma che, allo stesso tempo, ne esalta le peculiarità.

 

Francesco Ventura

Avvocato

Dottorando in diritto canonico

Pontificia Università Lateranense

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[1] Il testo è riportato da R. Navarro Valls, Diritto canonico e cultura spagnola, in R. Bertolino (a cura di), Scienza giuridica e diritto canonico, Torino, 1991, p. 91. 

 

 

 

 

   
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    Ultimo aggiornamento di questa pagina 13/04/2011

 

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