Il diritto penale nella Chiesa: alcune brevi considerazioni

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Il diritto è una componente essenziale ed imprescindibile di ogni compagine organizzata (ubi societas, ibi ius). Anche la Chiesa, quale società originaria e indipendente, ha come tale un proprio ordinamento sovrano, costituito dal diritto canonico, che applica anche facendo ricorso alla coercizione e alle sanzioni penali nei confronti dei suoi membri che violino le norme giuridiche. Il fondamento della vincolatività del diritto canonico, in special modo del diritto penale ove l’elemento della coazione imperativa è sempre presente, risiede nel carattere indipendente e originario della Chiesa che, per le res spirituales et spiritualibus adnexae (cfr. can. 1401, n. 1 CIC), è assolutamente sovrana e come tale, superiorem non recognoscens.

SOMMARIO: 1. Premessa: La Chiesa come societas e communitas – 2. Il fondamento dell’ordinamento giuridico della Chiesa, in particolare del diritto penale – 3. La pena nell’ordinamento canonico – 4. La finalità della pena: pene medicinali e espiatorie – 5. Carattere residuale del diritto penale canonico: pene ferendae sententiae e latae sententiae – 6. Brevi cenni conclusivi – Bibliografia

1. Premessa: La Chiesa come societas e communitas

La Chiesa cattolica è un ente sovrano indipendente che, pur mancando di un ambito territoriale proprio, è dotato di un ordinamento giuridico (formato dal diritto canonico) la cui vigenza e applicazione si estende a tutti i fedeli.

Il dibattito degli anni intorno al Concilio Vaticano II [1] ha certamente influenzato la concezione della Chiesa, anche per quanto riguarda il suo aspetto organizzativo e istituzionalizzato. Si partiva da una posizione, decisamente maggioritaria nel XIX sec. e agli inizi del secolo successivo, che identificava nell’organizzazione ecclesiastica principalmente una societas perfecta, organizzata appunto in termini giuridici e dotata di un proprio ordinamento giuridico indipendente: era la posizione del cd. ius publicum ecclesiaticum, dominante nell’impostazione recepita dal Codice di diritto canonico del 1917.

Con il Concilio si sviluppa, per definire la natura anche istituzionale della Chiesa, la diversa categoria della comunità, ritenuta più adatta ad esprimere il dato biblico e patristico, oltre che la sensibilità di varie istanze di rinnovamento e di partecipazione presenti in quegli anni. Una tale acquisizione concettuale, sebbene non direttamente contrapposta a quella societaria [2], illumina certamente in termini differenti l’intera questione.

Un modello ecclesiologico comunitario presenta di certo degli elementi di novità rispetto a quello societario, che si riflettono direttamente anche nel rapporto di appartenenza tra Chiesa istituzione e fedeli e nella dimensione anche giuridica della Chiesa. Si può riscontrare infatti una differenza strutturale e costitutiva tra societas e communitas [3]: mentre infatti un’organizzazione societaria presuppone un’appartenenza necessaria, un modello comunitario si basa invece su un’appartenenza volontaria.

Il caso più tipico di appartenenza necessaria è rappresentato dalla società politico-statuale, i cui membri sono legati allo Stato da un rapporto che si impone ad essi ab estrinseco e tale rapporto di appartenenza è costituito dalla cittadinanza: è infatti l’ordinamento giuridico sovrano dello Stato a stabilire i criteri alla presenza dei quali l’individuo diventa cittadino, a prescindere da una sua spontanea adesione. I criteri posti dall’ordinamento sono imperativi e si impongono anche a prescindere dall’adesione spontanea che ad essi possa manifestare il soggetto nei confronti del quale si dispiegano gli effetti normativi previsti. Gli Stati determinano infatti la sfera dei propri cittadini in base a criteri del tutto indipendenti dalla volontà degli individui e le modalità fondamentali per l’attribuzione della cittadinanza sono quelle per nascita, cioè lo ius sanguinis e lo ius soli, mentre sono del tutto marginali i criteri cd. volontari [4].

Un’organizzazione comunitaria invece si basa su un criterio di appartenenza assolutamente volontaria, dove è il soggetto che sulla base di un suo libero apprezzamento esprime il suo intendimento di entrare a far parte della comunità di riferimento. Non è l’ordinamento ad imporre un rapporto di appartenenza tra soggetto e istituzione, ma il soggetto che sceglie attraverso un’adesione volontaria di appartenere all’ordinamento. In questo senso è stato evidenziato come presupposto irrinunciabile dell’adesione comunitaria sia la personalità del legame posto in essere in termini volontaristici da parte dell’individuo, all’interno di una tipologia relazionale che si presenta opzionale, non dovuta in termini di necessità e non coercibile da parte di terzi [5]. In questo senso, mentre l’appartenenza ad un’organizzazione societaria si configura come fatto giuridico, in cui è irrilevante l’elemento volontaristico del soggetto, l’adesione ad una comunità è invece un atto giuridico in quanto, perché si producano gli effetti previsti, è necessaria una manifestazione di volontà da parte dell’individuo [6].

Da questo punto di vista, l’appartenenza dei fedeli alla Chiesa si configura assai meglio come adesione volontaria, piuttosto che imposizione [7]: se l’essere cittadino di uno Stato è una necessità, l’essere christifidelis e far parte della Chiesa è sempre una scelta.

2. Il fondamento dell’ordinamento giuridico della Chiesa, in particolare del diritto penale

Il Concilio vaticano II ha ripreso tra l’altro la categoria biblica del popolo di Dio nella definizione della Chiesa [8]. I christifideles sono quindi Popolo di Dio [9], membri della Chiesa, cittadini della Gerusalemme celeste. Per riflesso della duplice natura celeste e terrena della Chiesa, i suoi membri sono al contempo proiettati verso le realtà spirituali ed eterne, ma anche partecipi e inseriti nella sua struttura istituzionale visibile in questo mondo [10]. Evidentemente, dal punto di vista giuridico qui preso in considerazione, l’analisi sarà limitata a questo secondo profilo.

Qualsiasi struttura umana organizzata ha evidentemente bisogno di norme che ne disciplinino la stessa organizzazione e il funzionamento, come già avevano espresso i romani nel noto brocardo: ubi societas, ibi ius. Il diritto è una componente essenziale ed imprescindibile di ogni compagine umana organizzata. Anche la Chiesa pertanto, nella sua struttura terrena e visibile, si è data una serie di norme giuridiche che ne configurano l’assetto istituzionale. Come noto l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica è costituito dal diritto canonico. E’ bene subito chiarire che esso non si esaurisce nel solo Codice di diritto canonico del 1983. Tale Codice infatti riguarda la sola Chiesa latina (can. 1 CIC), ma ad esso si è aggiunto dal 1990 il Codice per le Chiese orientali, da considerare certamente anch’esso fonte del diritto canonico. Ci sono inoltre le specifiche fonti di diritto del sistema canonico, abilitate alla produzione normativa e previste anche dallo stesso Codice: dalle Costituzioni apostoliche agli altri atti del Sommo Pontefice, alle leggi ecclesiastiche [11] (cann. 7-22 CIC), alla consuetudine [12], (cann. 23-28 CIC), solo per fare alcuni esempi di carattere generale. I decreti generali (can. 29 CIC) e le istruzioni (can. 34 CIC) sono ugualmente considerate fonti canoniche [13], benchè di carattere secondario, in quanto atti capaci di introdurre norme giuridiche all’interno dell’ordinamento.

Il problema è però quello di inquadrare correttamente i caratteri dell’ordinamento giuridico canonico, in particolare si tratta di spiegare come la Chiesa che è una struttura istituzionale ad adesione volontaria, possa avere un apparato normativo capace di imporsi coattivamente. L’antitesi tra adesione volontaria dei membri e applicazione coattiva delle norme è in realtà solo apparente. L’adesione volontaria infatti riguarda il legame di appartenenza tra il singolo christifidelis e la Chiesa, che sorge attraverso il sacramento del battesimo [14], chiesto dal fedele e impartito dalla Chiesa.

Dal battesimo discende un carattere indelebile che conferisce lo status di christifidelis il quale comporta, da un punto di vista giuridico, l’incorporazione al popolo di Dio e quindi la soggezione all’ordinamento canonico: non a caso infatti la disposizione del can. 11 CIC prevede che alle leggi ecclesiastiche sono tenuti tutti i battezzati, che godono delle condizioni richieste.

Anche l’adesione alla Chiesa comporta quindi l’effetto principale che discende da qualsiasi rapporto di appartenenza nei confronti di un qualsiasi ente sovrano, vale a dire la sottoposizione per chi vi appartiene al relativo ordinamento giuridico.

Si sceglie volontariamente se entrare a far parte o meno della Chiesa, ma se si diventa christifideles ci si assoggetta agli effetti imperativi dell’ordinamento giuridico di appartenenza, così come chi chiede la cittadinanza di uno Stato, una volta ricevuta, è assoggettato imperativamente alla legge nazionale di riferimento.

La questione è evidentemente più importante per quanto riguarda il diritto penale: se tutto l’ordinamento giuridico (della Chiesa, come di uno Stato) è dotato del carattere dell’imperatività, questo è ancor più cogente per il settore penale in cui l’ordinamento stesso interviene contro la volontà del singolo per imporre una sanzione e coattivamente ottenerne la effettiva esecuzione.

Ma la Chiesa, quale società originaria e indipendente, ha come tale un proprio ordinamento sovrano, che applica anche facendo ricorso alla coercizione e alle sanzioni penali nei confronti dei suoi membri che violino le norme giuridiche. Il fondamento della vincolatività del diritto canonico, in special modo del diritto penale ove l’elemento della coazione imperativa è sempre presente, risiede nel carattere indipendente e originario della Chiesa che, per le res spirituales et spiritualibus adnexae (cfr. can. 1401, n. 1 CIC), è assolutamente sovrana e come tale, superiorem non recognoscens.

3. La pena nell’ordinamento canonico

Secondo quanto finora evidenziato, si può quindi affermare che, come ente sovrano e indipendente, dotato di un proprio ordinamento giuridico, la Chiesa ha il diritto nativo e proprio di imporre coattivamente sanzioni in caso di trasgressioni delle norme penali, come previsto dal can. 1311. Diritto nativo e proprio, in quanto compete alla Chiesa ex se, come ente sovrano, nella sua libertà di organizzazione per il raggiungimento dei fini che le sono propri, che non può essere soggetto ad alcuna limitazione o interferenza esterna.

Evidentemente però la via penale è sempre l’extrema ratio a cui far ricorso, quando tutte le atre possibili strade per ottenere l’adempimento normativo si sono rivelate inefficaci. Il diritto penale, nella Chiesa come nello Stato, sta a presidiare con sanzioni coattive solo i beni considerati di maggiore rilevanza per l’intero ordinamento giuridico, tanto da intervenire nella maniera più forte possibile in caso di trasgressione. La sanzione penale infatti è il rimedio più estremo che l’ordinamento mette in campo per garantire il suo rispetto e assicurare in ultima analisi la tenuta del sistema normativo nella sua interezza. La pena infatti presenta sempre un elemento afflittivo che si impone contro la volontà dell’individuo per il ripristino dell’ordine giuridico previsto dall’ordinamento.

Il Codice latino del 1983 non dà una definizione normativa della pena canonica. Un’indicazione in questo senso può essere tratta dal Codice precedente del 1917 in cui si parlava della pena come “privazione di un qualche bene, imposta dalla legittima autorità per correggere il reo e punire il delitto”.

La pena interviene quindi in termini limitativi nella sfera giuridica di un soggetto, privandolo di un suo bene o di un diritto che appartiene normalmente alla sua disponibilità, di cui evidentemente il soggetto è titolare in quanto christifidelis.

Nella pena è sostanzialmente presente un elemento impositivo: essa si impone contro la volontà del soggetto colpito e per imposizione dell’autorità. La pena canonica ha sempre quindi un carattere pubblico e si impone per intervento di chi esercita legittimamente la potestà di governo nella Chiesa. Evidentemente per l’imposizione legittima di una pena occorre la violazione oggettiva della norma penale e l’imputabilità del soggetto agente (can. 1321 CIC).

4. La finalità della pena: pene medicinali e espiatorie

La pena è sempre finalizzata: c’è sempre un elemento teleologico a cui tende l’inflizione della sanzione. Il codice del 1917 in particolare ne evidenziava due: la correzione del reo e la punizione del delitto.

L’inflizione della pena rappresenta sempre una conseguenza non voluta ad un comportamento deviante del reo: l’ordinamento reagisce con la comminazione di una sanzione nei confronti di chi l’ha violato con la trasgressione di una norma. Evidentemente la pena canonica, al contrario di quella prevista dal legislatore statuale, ha sempre un significato pastorale e persegue non solo una funzione di mantenimento dell’integrità dell’ordine e del rispetto dell’ordinamento, ma anzitutto il bene dello stesso colpevole: tutto il diritto canonico deve essere orientato alla salus animarum, quae in Ecclesia suprema lex esse debet (cfr. can. 1752 CIC), specie quella di chi con il suo comportamento ha dimostrato di esserne più lontano. Il diritto canonico nella sua interezza non si contrappone alla pastorale, quasi che gli aspetti repressivi fossero contrari alla comprensione e all’apertura nei confronti delle diverse fattispecie, ma ha piuttosto in sé intrinsecamente un carattere pastorale. A questo proposito Benedetto XVI nel suo discorso alla Rota romana del 2011, riprendendo alcuni interventi precedenti di Giovanni Paolo II, ha ribadito come non è vero che per essere più pastorale il diritto debba rendersi meno giuridico, in quanto la dimensione giuridica e quella pastorale sono inseparabilmente unite nella Chiesa e nel suo diritto [15].

La pena dunque non può mancare di un carattere medicinale, che tenda all’emenda del reo e alla sua correzione. In questo senso l’ordinamento canonico ha una specifica tipologia sanzionatoria in cui questo carattere è prevalente: si tratta delle pene cd. medicinali o censure (can. 1312, n. 1 e cann. 1331-1333). Secondo al definizione del Codice del 1917, la censura infatti è la pena con cui si priva il battezzato, delinquente e contumace, di taluni beni spirituali o a questi annessi, fino a quando cessi la sua pertinacia e sia assolto. L’ordinamento interviene nei confronti del soggetto che viola la norma affinchè si ravveda e abbandoni il suo comportamento deviante. Per questo la pena medicinale non cessa mai di per se stessa, per un suo compiersi, ma solo in virtù di un’assoluzione del reo a cui egli ha diritto al momento del cessare della sua condotta criminosa reiterata o permanente. Il fine primario a cui tende la censura è quindi la correzione del reo e la cessazione della sua pertinacia: ne consegue che non può imporsi in perpetuo, perché sempre si lascia aperta la possibilità della sua cessazione in seguito al ravvedimento del delinquente.

L’elemento punitivo del delitto, evidenziato nella definizione di pena del codice del 1917, sottolinea invece un altro aspetto della sanzione canonica: il ristabilimento dell’ordine giuridico violato ed il ripristino della comunione. E’ evidentemente un fine ulteriore e subordinato in termini di importanza al precedente, in quanto il primo riguarda l’aspetto soggettivo del delinquente da recuperare, la cui salus animae è il punto di riferimento sommo a cui far riferimento, mentre il secondo attiene all’aspetto, pure importante, dell’ordine giuridico violato e della rottura della comunione ecclesiale. La pena ha quindi anche un fine retributivo e riparativo: retributivo, in quanto la sanzione rappresenta la “retribuzione” della violazione commessa dal reo, riparativo, in quanto tende a ripristinare, per quanto possibile, le condizioni precedenti alla violazione che ha perturbato la comunione. Ogni delitto infatti, oltre a interessare per il comportamento antigiuridico del singolo, interessa direttamente tutta la Chiesa, la cui comunione è stata violata da chi deliberatamente ha attentato contro di essa con il proprio comportamento. Il delitto canonico è in sé anche peccato e come tale, oltre che la riparazione in foro interno che prescinde dagli aspetti giuridici penali, esige anche una riparazione dell’ordine esterno. A focalizzare maggiormente questi aspetti sembrano essere le pene cd. espiatorie (can. 1312, n. 2): si tratta di pene la cui finalità diretta è l’espiazione del delitto (così si esprimeva il testo del codice del 1917). Per questo la loro remissione non dipende dall’atteggiamento del reo o dalla cessazione della sua eventuale pertinacia, ma piuttosto, se del caso, dalla gravità del delitto commesso: hanno quindi una connotazione retribuitrice e ripartiva dell’ordine sociale leso. Per lo stesso motivo si possono anche imporre in perpetuo, oltre che a tempo determinato o indeterminato. Inoltre cessano automaticamente al loro compimento, senza bisogno di interventi di remissione, anche se potrebbero cessare prima a seguito di un atto di grazia a cui il reo non ha evidentemente diritto, ma che può solo chiedere appunto graziosamente.

5. Carattere residuale del diritto penale canonico: pene ferendae sententiae e latae sententiae

Il diritto penale, anche nella Chiesa, non può non avere un carattere residuale: interviene cioè solo quando altri settori del diritto non risultano sufficienti a garantire l’effettivo rispetto della norme. Proprio in quanto la pena è dunque il rimedio estremo e cui far ricorso, anche perché sempre invasiva della sfera di libertà del singolo che viene in qualche modo violata, il Codice prescrive che alle sanzioni penali nella Chiesa si faccia ricorso solo come extrema ratio. La procedura per l’inflizione o la dichiarazione di una pena infatti può essere attivata solo quando l’ammonizione fraterna, la riprensione o altri strumenti si sono dimostrati inefficaci (can. 1341).

Ci sono tuttavia due modi previsti dall’ordinamento canonico per comminare la sanzione penale. Si parla infatti di pene ferendae sententiae, che costringono il reo solo dopo che siano state inflitte e pene latae sententiae, che si applicano ipso iure alla stessa commissione della trasgressione penale (can. 1314).

Per la prima tipologia è necessaria in sostanza una formale inflizione da parte della legittima autorità perché venga applicata la pena. Viceversa, per la seconda, non si richiede una valutazione da parte del giudice o del superiore e la pena viene comminata automaticamente: in questo caso è la stessa la norma che compie la valutazione del fatto, ritenendolo così grave che al verificarsi del comportamento criminoso del reo è associata immediatamente la pena, senza alcuna necessità di pronuncia ulteriore, se non quella meramente dichiarativa che prende atto della comminazione.

A questa, si aggiunge la diversa distinzione tra pene a iure, comminate da una norma penale (legge o precetto, ferendae o latae sententiae) e ab homine, imposte da una sentenza giudiziale o da un decreto amministrativo: ne consegue che la pena latae sententiae è sempre a iure, mentre quella ferendae sententiae è a iure nel suo momento costitutivo, ma ab homine nel sua momento impositivo.

Evidentemente le pene latae sententiae, per la gravità degli effetti che importano e per il carattere di inflizione automatica della sanzione, devono essere ridotte a casi gravissimi, riferite a singoli delitti dolosi (non basterebbe la colpa grave) e ancora più eccezionalmente a censure, per il loro carattere maggiormente afflittivo. Una previsione in questo senso è contenuta esplicitamente nel can. 1318, che riprende un’indicazione presente nei principi che hanno guidato il lavoro di revisione del Codice del 1917 e di predisposizione del Codice vigente [16]. Il diritto orientale, più rispettoso delle forme, ma anche dell’opportunità del fatto che sia assicurata una valutazione caso per caso da parte del giudice o del superiore e non un mero automatismo, non prevede pene latae sententiae.

L’inflizione della pena inoltre, oltre che essere l’extrema ratio di cui si è detto in ossequio al principio di residualità del diritto penale, deve essere fatta ordinariamente in sede giudiziale. Esistono nella Chiesa due modalità formali di imposizione delle pene: il processo giudiziale, che produce se del caso una sentenza di condanna, e il procedimento amministrativo che sfocia in un decreto extragiudiziale. Il processo penale è la via privilegiata da seguire, perché garantisce maggiormente il contraddittorio e le opportune garanzie per far valere i diritti e tutelare la giustizia: solo quando si diano iustae cause si può ricorrere al procedimento in forma amministrativa (can. 1342).

6. Brevi cenni conclusivi

La Chiesa come societas, nel suo aspetto visibile, ha un’organizzazione istituzionale regolata dal diritto. Come ente sovrano e indipendente ha un proprio ordinamento giuridico che si impone, anche nella sua componente coercitiva e penale, nei confronti dei suoi membri, sebbene l’appartenenza alla Chiesa sorga sempre a seguito di un’adesione volontaria.

Date le sue finalità, le materie spirituali e annesse sono le uniche su cui si esercita la giurisdizione ecclesiastica. In queste materie, la pena canonica consegue finalità differenti, prima fra tutte la correzione del reo con grande attenzione per la sua salus animae, ma non mancano gli aspetti retributivi e riparativi, presenti anche negli ordinamenti statuali, come pure quelli cd. general-preventivi insiti in ogni sanzione penale che induce i consociati all’osservanza della norma già con la minaccia di una sanzione in caso di trasgressione.

Del tutto particolare nella Chiesa è inoltre la differenziazione di pene ferendae e latae sententiae, che tuttavia appartiene alla sola Chiesa latina, essendo estranea al Codice delle Chiese orientali.

In sostanza, dalle considerazioni svolte, emerge come il sistema penale nella Chiesa presenti alcune peculiarità che ne fanno un unicum, solo parzialmente assimilabile agli ordinamenti statuali.

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[1] Per il dibattito su Chiesa societas e communitas, da cui sono tratte le indicazioni qui riprese, P. Gherri, Diritto amministrativo canonico: strutture e strumenti, Dispense per gli studenti della Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano, 2008 (non pubblicati), p. 3-9.

[2] Sarebbe sbagliato contrapporre in termini antitetici una Chiesa societas ad una Chiesa communitas, come pure è stato fatto: si tratta piuttosto di due aspetti complementari e presenti entrambi nell’organizzazione e nella vita della Chiesa. Nella Chiesa dunque l’indiscutibile elemento comunitario non si pone in alternativa diretta al modello societario: anche perché (cfr. M. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Roma, 1996, p. 13) comunità e società sono due dinamiche abbastanza diverse.

[3] Il raffronto e lo studio delle differenze tra i due modelli strutturali comunitario e societario risale a F. Thönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Tubinga, 1887. L’autore individua due forme diverse di organizzazione sociale: la comunità (Gemeinschaft) e la società (Gesellschaft): mentre la prima, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, predomina in epoca pre-industriale, la seconda, basata sulla razionalità e sullo scambio, domina nella moderna società industriale. Tönnies vede questi due tipi (Normaltypen) di organizzazione sociale come contrapposti.

[4] In questo senso R. Clerici, Cittadinanza, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1989, p. 113, citata anche da P. Gherri, Diritto, p. 4-5. Anche nell’ambito dei criteri di acquisto della cittadinanza cd. volontari (si rinvia in proposito al paragrafo 5 del cap. II) si rileva come la volontà del soggetto non sia mai da sola sufficiente all’acquisto.

[5] Così ancora P. Gherri, Diritto, p. 5.

[6] In questo senso, P. Gherri, Diritto, p. 5, afferma che la cittadinanza (in senso proprio) è un fatto e l’adesione un atto.

[7] Il dati dell’adesione volontaria e i profili di organizzazione comunitaria della Chiesa evidenziati nel periodo conciliare, come detto, non vanno tuttavia posti in antitesi netta con l’aspetto societario, che pure è presente nella Chiesa: significativo a questo proposito il § 2 del canone 204 CIC che parla di Ecclesia in hoc mundo ut societas constituta et ordinata. Per J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, Milano, 1989, p. 29, la Chiesa raffigura se stessa come “popolo di Dio” per evidenziare determinati aspetti del carattere sociale del cristiano o un determinato modo di comprendere la Chiesa come gruppo sociale, nel contesto della totalità del suo mistero.

[8] Il Concilio ha definito la comprensione del mistero della Chiesa nella Cost. dogmatica Lumen gentium: in particolare nel n. 9 si legge che Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità. Cfr. anche Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 781-786, Città del Vaticano, 1995.

[9] Can. 204 CIC: Christifideles (…) in populum Dei sunt constituti.

[10] Già in S. Agostino di Ippona, De civitate Dei, si trova la contrapposizione tra città terrena e città celeste per definire le due dimensioni su cui vive la Chiesa e di cui sono quindi partecipi i suoi membri. Si legge in Lumen gentium, n. 8: La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse: esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Cfr. sul punto anche Pius XII, Enciclica Mystici Corporis, 29 giugno 1943.

[11] Il Codice non fornisce una definizione di legge canonica. Tuttavia dagli elementi previsti dalla normativa, si può classificare la legge come una disposizione obbligatoria (can. 8, §1) razionale (can. 24, §2), comune e stabile, data dal competente legislatore ecclesiastico (cann. 23 e 26) ad una comunità capace di ricevere una legge per il bene comune formulata con chiarezza e promulgata secondo il diritto (can. 29).

[12] Ai sensi del can. 23 ha forza di legge soltanto quella consuetudine introdotta dalla comunità dei fedeli, che sia approvata dal legislatore a norma delle previsioni del Codice.

[13] Ai sensi del can. 29 i decreti generali con i quali dal legislatore competente vengono date disposizioni comuni per una comunità capace di ricevere una legge sono propriamente leggi e sono retti dalle disposizioni dei canoni sulle leggi. Ai sensi del can. 34 le istruzioni, che propriamente rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle, sono date ad uso di quelli il cui compito è curare che le leggi siano mandate ad esecuzione e li obbligano nell’esecuzione stessa delle leggi: le pubblicano legittimamente, entro i limiti della loro competenza, coloro che godono della potestà esecutiva.

[14] Si entra a far parte del popolo di Dio che è la Chiesa attraverso il sacramento del battesimo. Il battesimo viene chiesto alla Chiesa attraverso una libera manifestazione di volontà. Per l’ordinamento canonico, i fedeli sono dunque costituiti come popolo di Dio e incorporati a Cristo mediante il battesimo (can. 204 CIC). Il battesimo è quindi il primo dei sacramenti, attraverso il quale gli uomini sono rigenerati come figli di Dio e vengono incorporati alla Chiesa (can. 849 CIC). Il battesimo, come sacramento dell’iniziazione cristiana, prescrive sempre una richiesta in questo senso da parte dei catecumeni: nel rito del battesimo degli adulti, la celebrazione del sacramento è preceduta proprio da uno specifico cammino di iniziazione, che comincia proprio con l’ammissione al catecumenato, in risposta alla richiesta libera di far parte della Chiesa. L’ordinamento canonico prescrive infatti che, affinchè un adulto possa essere battezzato, egli debba necessariamente aver manifestato la volontà di ricevere il battesimo (can. 865, §1 CIC). Anche nel rito del battesimo dei bambini, il sacramento viene celebrato a seguito della richiesta dei genitori a nome del bambino.

[15] Benedictus XVI, Allocuzione alla Rota romana, 22 gennaio 2011.

[16] Prefazione al CIC, Principio n. 9: Circa il diritto coattivo al quale la chiesa, in quanto società esterna, visibile e indipendente non può rinunziare, le pene siano generalmente ferendae sententiae e si infliggano e si rimettano solo nel foro esterno. Le pene latae sententiae siano ridotte a pochi casi, da infliggere solo controgravissimi delitti.

Bibliografia

Agostino di Ippona, De civitate Dei

Arroba Conde M., Diritto processuale canonico, Roma, 1996

Benedictus XVI, Allocuzione alla Rota romana, 22 gennaio 2011.

Clerici R., Cittadinanza, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1989

Catechismo della Chiesa cattolica, Città del vaticano, 1995

Gherri P., Diritto amministrativo canonico: strutture e strumenti, Dispense per gli studenti della Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano, 2008

Hervada J., Diritto costituzionale canonico, Milano, 1989

Pius XII, Enciclica Mystici Corporis, 29 giugno 1943

Thönnies F., Gemeinschaft und Gesellschaft, Tubinga, 1887